22 Ottobre 2019

#6 – Vite precarie

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“Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno … e invece non dovete ammirarlo.” … “Ma perché non dobbiamo ammirarlo?” “Perché io sono costretto a digiunare, non posso farne a meno” “E perché non puoi farne a meno?” “Perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse. Se l’avessi trovato, credimi, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come tutti”.

F. Kafka,
Il Digiunatore

Le mura, i cancelli, gli orari, le pause ricreative. I compiti, i lavoretti. Le gerarchie e le leggi non scritte. Le complicità, le sfide e i test di lealtà. Simili elementi appartenenti a sistemi differenti, scuola e carcere. Differenti nelle finalità proposte e in quelle raggiunte. Eppure, se la forma sostanzia la cosa e la ritualità ne è l’emblema, la somiglianza fra le due istituzioni non può essere né peregrina né tanto casuale. È questa bruma che si attraversa in Appunti di una precaria dal supercarcere di Antonella Festa (Ed. Nuova Gutemberg, Lanciano 2019). Respirarne l’umidità che ne deriva può dare senso di nausea e sfinimento, non solo ai corpi che vivono forzatamente questi spazi, ma anche a quelli che li attraversano volontariamente. Questo è il caso della giovane insegnante precaria, autrice di questo libro, che punta diritta, senza veli ipocriti e piagnistei, al vero centro della questione. La precarietà delle vite, dell’esistente. Dentro e fuori dai cancelli.

Cosa significa varcare volontariamente la soglia del carcere da insegnante precaria per completare le ore di insegnamento? Forse desiderio di approfondire, di sondare la continuità tra i due sistemi e le relative crepe. Certo, insegnare in un liceo ad adolescenti e in un carcere non può essere la stessa cosa. Ma la sfida e l’impegno sono gli stessi. Sono diversi gli espedienti da utilizzare di volta in volta per catturare l’attenzione, i programmi, le ore, i livelli di attenzione, per non parlare dell’età, delle esperienze di vita, delle prospettive di futuro, certo. Non può tutto questo essere appiattito o assottigliato, tuttavia rimane invariata la determinazione con cui, nonostante i cumuli di difficoltà, che divengono spesso veri e propri macigni, un’insegnante precaria svolge il suo lavoro a testa alta e controvento. Anche quando da questo prende una pausa. Quando da questo si distacca per sopravvivere. Quando si accorge che l’aria irrespirabile la sta soffocando. Quando gli studenti non bastano a nutrire un’insegnante precaria, né nel corpo né nel resto. E sembra proprio l’esperienza del supercarcere ad aver svelato all’autrice parti di sé – come insegnante e non solo- nuove o non del tutto approfondite prima. Insegnare a dei “fine pena mai” sbatte in faccia un’arroganza della precarietà della vita, che si fa quasi foglia morta, che spinge l’autrice a riflettere sul senso di fondamentale insensatezza delle istituzioni totali, come quella carceraria.

Da questa esperienza, dopo un discidium con l’insegnamento, l’autrice riprenderà il suo mestiere con una consapevolezza maggiore e forse diversa di sé e del suo ruolo. Il confronto con la palude carceraria le darà anche la possibilità di sondare l’abisso stagnante che si apre tra le leggi positive e le leggi non scritte, che Sofocle chiama agrapta nomima nell’ Antigone. E interessante spunto è , infatti, la dedica che Antonella Festa appone al libro, cioè alla giovane capitana Karola Rackete, un’ Antigone dei nostri tempi. A cosa possono servire le figure mitiche – emblema, se non a catturare un’ottica universale, lettura valida anche per l’esistente?

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